Alberi e confini

L’albero è una sorta di scultura naturale: esplicitamente manifesta il suo insieme di relazioni e interazioni  col suolo , con la roccia, con l’acqua, con le sostanze organiche. E soprattutto con lo spazio e la luce, le grandezze dello sconvolgimento dei fisici del secolo scorso, le grandezze einsteiniane. E infatti l’albero può essere senza tempo. Pensiamo alle sequoie nordamericane la cui vita si misura in millenni, ma anche all’ulivo che nell’area del mediterraneo è forse l’essenza più longeva. Si tratta per questi individui di una dimensione di vita che sfugge alla capacità di storicizzazione umana: intervalli di millenni sono in storia solamente studiabili in termini di nascita e morte di intere civiltà ma quando sono applicate agli individui perdono rapidamente di senso. Fotografare gli alberi significa quindi mettere davanti gli occhi degli spettatori l’immagine di questa esistenza esistenzialmente “pura” ovvero non contaminata dal racconto della storia. E se uno dei ruoli della fotografia è quello di far accrescere la consapevolezza degli uomini distogliendo il loro sguardo dal banale del quotidiano per indirizzarlo di volta in volta su qualcosa di nuovo o su qualcosa che merita attenzione, allora la mia ricerca andrebbe estesa: partendo dall’albero dovrebbe cercare nella direzione del manifestarsi delle forme di esistenza. Se, per l’albero, la monumentalità è un fatto evidente, per altre forme di esistenza stenta ad emergere; la fotografia, forse, può dare un contributo. Le tracce della vita o, forse meglio, le tracce dell’esistenza (e qua bisognerebbe andare a rileggere “Gaia” di Lovelock)  potrebbero essere tra i nuovi confini da esplorare.

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